sabato 7 ottobre 2017

AZIONE STUDENTESCA ROMA, LICEO VIRGILIO: ENNESIMO CROLLO...

Ennesimo crollo in una scuola romana, questa volta al Virgilio, in pieno centro. 
L’incuria in cui versano gli istituti scolastici romani non preoccupa nessuno, sono decine gli istituti romani che versano in uno stato fatiscente. È assurdo come ad oggi le priorità di questo governo siano leggi come lo Ius Soli piuttosto che investire nell'edilizia scolastica siccome le scuole cadono, letteralmente, a pezzi.
Il crollo di una parte del solaio al Liceo Virgilio è un fatto inaudito che ha messo in pericolo la sicurezza degli studenti ma è, purtroppo, uno dei tanti episodi di precarietà degli istituti romani.
Da tempo come Azione Studentesca chiediamo la messa in sicurezza degli istituti, ma il nostro appello rimane inascoltato da parte delle istituzioni. Come sempre ci troviamo di fronte a persone che dalla loro, calda e comoda, poltrona sono pronte a rubarci il futuro e ad impedirci di vivere, nella più totale sicurezza, le nostre scuole.
Non sarà un crollo e un governo che se ne frega a fermarci, le scuole crollano, gli studenti no.

mercoledì 4 ottobre 2017

LA SPAGNA E IL CASO CATALANO: L’UNITA’ DI DESTINO DELLA NAZIONE OLTRE LA DISGREGAZIONE MONDIALISTA…

"La Spagna è una unità di destino nell'universale. Ogni cospirazione contro questa unità è da ripugnare. Ogni separatismo è un crimine che non perdoneremo. La costituzione vigente, in quanto incitante alle disgregazioni, attenta all'unità di destino della Spagna. Per questo noi esigiamo il suo istantaneo annullamento". José Antonio primo De Rivera
Per farsi un’idea sul caso catalano basterebbero i finanziamenti di Soros, gli articoli dell’Huffington Post e il coro unanime delle oligarchie europee. Tuttavia, vogliamo andare oltre e sviluppare un’analisi che tenga conto delle tante sfumature di un dibattito che non nasce oggi e che - da sempre - ci vede schierati con l’integrità della Nazione spagnola. Lo facciamo con qualche giorno di ritardo per tre motivi: il primo risiede nella nostra allergia per lo spirito del tifoso, che i social network ospitano con fin troppa leggerezza; il secondo è da ricercarsi nella necessità di offrire un giudizio a freddo, con la lucidità di chi ha osservato, ponderato e giudicato la situazione; il terzo è dovuto alla tentazione di non aggiungere l’ennesimo articolo al mare magnum delle analisi e delle invettive. Lo facciamo con un lungo articolo, perchè non vogliamo parlare per slogan e frasi fatte.
Quella andata in scena nei giorni scorsi, come molti hanno intuito, è stata una pagliacciata che solo la dilettantesca gestione di Rajoy ha reso drammatica e seria. L’autoproclamazione del Referendum, che nei numeri e nelle modalità di gestione si è rivelato una sconfitta per i separatisti, sarebbe stato etichettato come un flop e dimenticato nell’arco di qualche settimana se la Polizia non avesse malmenato i cittadini davanti alle telecamere di tutto il mondo, offrendo il destro alle narrazioni del martirologio democratico di un “popolo assetato di libertà al quale viene negata la possibilità di esprimere un voto”. Ma, ingenuità politiche a parte, quella dell’autodeterminazione catalana è una questione che dobbiamo affrontare storicamente.
Anzitutto: l’integrità spagnola non deve essere perseguita in un nome di un centralismo superato e codino, magari caratterizzato da un nazionalismo artefatto e superficiale di stampo borghese e conservatore. L’unità di destino nell’universale, della quale parlava Josè Antonio Primo de Rivera, non era un nazionalismo patriottardo e ipocrita, ma un nesso atemporale con il sangue e con il suolo. Ramiro Ledesma Ramos, nel 1931, affermava: “Il problema della Catalogna non è altro che uno dei tanti esempi concreti che denunciano fra noi un altro problema con più profonde radici: il fallimento della struttura esistente nel nostro Stato”. Ieri come oggi, dunque, l’autonomia e il separatismo non erano la soluzione: la ricerca di una nuova armonia, che rispettasse le spinte identitarie per coniugarle in un nuovo modello di inclinazione imperiale, era ritenuta necessaria. Un “nuovo Stato, i cui fini non erano quelli di risolvere altri problemi precedenti ad esso, e ad esso per tanto estranei, ma quello di rendere impossibili tutti i problemi”. E Josè Antonio Primo de Rivera puntualizzava: “La nazione non è un’entità fisica che si individua per le sue caratteristiche orografiche, etniche o linguistiche, ma un’entità storica che si caratterizza per una propria unità di destino. (…) È la Spagna la nazione, non alcuno dei popoli che la compongono. Quando questi popoli si riunirono, trovarono la giustificazione storica della loro esistenza”. Lo spirito nazionale al quale ci richiamiamo, dunque, è rivoluzionario e non reazionario; è vitale e non limitato alla sopravvivenza; è dinamico e non statico. Ecco perché non riteniamo di dover difendere un esecutivo in carica o un meccanismo burocratico, ma una Patria: i primi sono effimeri e temporanei, la seconda è profonda ed eterna.
Ma andiamo per gradi. La Catalogna non è mai stata indipendente: la sua storia è inestricabilmente connessa a quella della Spagna. Fin dal lontano 1137 - infatti - ha costituito la “Corona d’Aragona”, seppur con un certo margine di autonomia. La nazione castigliana, complici i Re cattolici, è una delle prime al mondo: dalla penisola iberica si radica un impero che varca le colonne d’Ercole e arriva oltreoceano. La Spagna, che ritrova una propria unità territoriale con la Reconquista, può vantare una storia nazionale di lungo corso. La Catalogna è parte di quella storia: è sempre stata inserita nel solco spagnolo, fatta eccezione per la Guerra dei Trent’anni, che comportò un risentimento anti-castigliano che - però - la fece confluire nell’orbita francese per dodici anni, dal 1640 al 1652. Quello che i separatisti odierni assurgono a precedente storico, dunque, è il caso di una Catalogna che si configura come provincia francese e non come Stato indipendente. Il catalanismo ha inizio nel 18° secolo, grazie alla concessione spagnola di un’autonomia di commercio che portò i catalani ad aprire una rotta verso l’America: la rinnovata spinta “identitaria”, dunque, ha un’origine economica che viene oggi confermata dalle rivendicazioni fiscali dei separatisti. Neanche sotto la Repubblica del 1931-1939 la Catalogna è stata indipendente: ad una iniziale Repubblica Catalana, esistente solo sulla carta, si sostituì poco dopo un governo regionale autonomo e inserito nell’entità statale spagnola, dove è rimasto fino ad oggi. E, occorre ricordarlo, per preservare una Spagna unita hanno combattuto e sono morti migliaia di italiani, partiti volontari nella Guerra Civile ed oggi sepolti sul suolo spagnolo.
Chi paragona il caso catalano a quello irlandese, tibetano o palestinese è totalmente fuori strada. Barcellona non è Belfast, Lhasa o Gaza; non vi sono eserciti di occupazione o leggi speciali; non vi sono carri armati e discriminazioni; non si praticano torture e processi sommari. A Belfast, Lhasa e Gaza la popolazione locale è stata vittima di un settarismo che ha impedito la sopravvivenza fisica ed economica degli autoctoni in casa propria - per favorire gli occupanti o i suoi lealisti - mentre a Barcellona si lamenta un gettito fiscale che non rende giustizia alle necessità di una regione che lavora e produce più delle altre. La Guardia Civil, che ha comunque operato con ingenua brutalità, rappresenta la Polizia dello Stato nel quale i catalani hanno sempre vissuto e non una forza militare straniera: essa ha difeso l’integrità di un’entità statale che potrà non piacere, ma che non si è imposta con la forza annettendo un territorio precedente autonomo. Paragonare, come è stato fatto, l’arrivo della Guardia Civil all’ingresso dei carri armati sovietici a Budapest e Praga è fuorviante: la Spagna del 2017 non è una dittatura feroce imposta con i massacri e la censura preventiva, ma una democrazia moderna e una Nazione con una storia antica. E non serve uno Jan Palach per far conoscere la causa catalana al mondo, perché i grandi poteri economici, politici e mediatici sono già schierati al fianco degli indipendentisti, contribuendo in modo determinante a legittimarne l’azione.
Chi difende la causa catalana in nome del “diritto all’autodeterminazione dei popoli”, infine, dovrebbe interrogarsi sulla natura della stessa, dapprima in assoluto e successivamente in relazione ai casi analoghi. Scrive Adriano Scianca: “come concetto, poi, l’autodeterminazione dei popoli intesa in senso giusnaturalistico non esce dal medesimo quadro filosofico, politico ed etico della ideologia dei diritti dell’uomo in generale. Si tratta, peraltro, di una contraddizione in termini: chi si “autodetermina”, cioè si determina “da solo” (autos), non deve reclamare alcun diritto. Molto semplicemente, si prende ciò che è suo, come è sempre accaduto nella storia. Viceversa, stabilire un principio astratto per cui ogni popolo ha diritto ad autodeterminarsi, a prescindere da ogni considerazione di contesto, appare decisamente folle. E poi con quale criterio? Quello maggioritario? Allora dovremmo benedire il Kosovo, narcostato islamista nel cuore dell’Europa “autodeterminatosi” su una terra che non era dei kosovari, ma in cui questi ultimi erano divenuti maggioranza grazie alla demografia e all’aiutino turco-americano. E perché no, un domani potremo assistere a dei nigeriani che si “autodeterminano” in casa nostra o degli arabi che lo fanno in Francia”. Per la Spagna sono morti in milioni e nello Stato nazionale - con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti - sono oggi presenti degli elementi di sovranità politica che, se organizzati e incanalati nella giusta direzione, possono fungere da argine allo strapotere dell’evanescenza finanziaria.
Ma a chi giova una Catalogna indipendente? Senza dubbio a quei poteri che spingono per la realizzazione del processo mondialista, fondato sulla disgregazione degli Stati sovrani e la coagulazione di nuove entità, fedeli alla linea tecnofinanziaria e facilmente controllabili dalle èlite eurocratiche. Non è un caso che l’estabilishment occidentale, per bocca di molti dei suoi più autorevoli burattinai, abbia espresso solidarietà alla causa catalana, cercando di legittimare un referendum illegittimo. La stessa solerzia non è stata riscontrata in Crimea, dove un esito bulgaro ha decretato il ritorno della penisola nella Federazione Russa, in reazione ad un golpe ucraino che aveva abolito la lingua russa in una regione a fortissima maggioranza russofona e con un percorso storico che non lascia spazio alla fantasia. Il potere vero, insomma, riconosce soltanto i referendum che garantiscono un vantaggio politico allo status quo, come abbiamo visto in Kosovo.
Un atteggiamento che lascia trasparire una fitta rete di interessi economici, politici e culturali. Del resto, anche in questo senso, i separatisti catalani che vengono sponsorizzati dai media nostrani incarnano perfettamente lo stereotipo del radical-chic odierno: immigrazionisti convinti, infarciti della retorica democratica rivendicativa, collezionisti di gessetti, liberisti quanto basta, pronti a sputare sulle frontiere e sulle spinte nazionali in nome di un vago senso di appartenenza territoriale, estimatori della burocrazia di Bruxelles, aperti sostenitori delle teorie di genere, campioni dell’antirazzismo e dell’antifascismo. Certo, non tutti i catalani sono così - anche tra gli indipendentisti - ma ciò che passa in televisione è assolutamente funzionale al leitmotiv del “pensiero unico” dominante. Non è un caso che, i separatisti arcobaleno, abbiano raccolto le simpatie dei principali sponsor globalisti, oggi impegnati a delegittimare la presenza di ogni punto di riferimento spaziale, etnico e valoriale in nome di un modello multietnico, liquido e sradicante.
Infine, alcuni dati: al referendum autoproclamato hanno votato il 41% degli aventi diritto, in un contesto che ha visto lo stesso elettore votare in cinque diversi seggi. E’ provato, quindi, che la percentuale sia ancora minore. Siamo davvero sicuri che con meno del 40% si possa decretare lo smembramento di uno Stato con secoli di storia alle spalle? Dove termina la “democrazia delle urne” e dove inizia il suo paradosso? Quello della Catalogna può essere un precedente pericoloso, perché se in nome degli sgravi fiscali è possibile ripensare l’integrità di uno Stato e proclamare l’indipendenza di una regione, il futuro delle entità nazionali è sottoposto al pericolo della disgregazione. E quest’ultimo, con buona pace dei padani, è il più bel regalo che si possa fare ai Soros di oggi e di domani: smembrare le Nazioni per sostituirle, definitivamente, con i dispositivi di mercato.

martedì 12 settembre 2017

ASSALTO ALLA VITTORIA!

A quasi cento anni dalla vittoria della Grande Guerra ci ritroviamo in una nazione allo sbando governati dai signori del potere che vogliono imporci un destino già scritto.
Per questo, oggi, è importante riscoprire le proprie radici e quello spirito che ha animato i tanti figli d’Italia nel Risorgimento e nella Prima Guerra Mondiale.
Riteniamo che soltanto con la consapevolezza del nostro passato di vittoria si possa davvero compiere quella Rivoluzione che può e deve essere soltanto frutto dell’impeto della nostra giovinezza.
Forti dello spirito dei ragazzi del ’99 che conquistarono il proprio futuro combattendo noi oggi ci lanciamo nel nostro assalto alla vittoria.

lunedì 11 settembre 2017

TUTTO PER LA PATRIA!

NON DISERTARE, NON TI OMOLOGARE, NON TI SOTTOMETTERE: DIFENDI LA TUA TERRA, ADESSO!
La Patria non è il nostro passato, ma il nostro futuro: è l’eredità dei nostri Padri, ma anche il prestito dei nostri figli. E’ un patrimonio da vivere e da amare: sono gli eroi che hanno combattuto lungo i nostri confini, i capolavori dei nostri artisti, le meraviglie dei nostri borghi, i colori dei nostri paesaggi. Non è soltanto geografia, ma anche stile, lingua, gastronomia, artigianato, agricoltura, poesia, letteratura e sport.
La Patria è un vincolo spirituale, un luogo fisico e dell’anima, un’esortazione a riconoscere ciò che ci appartiene e ciò che ci è estraneo. La Patria è la nostra comunità, il nostro sentire comune, la nostra casa, il sangue che ci scorre nelle vene e quello versato dai nostri eroi, il luogo nel quale siamo nati e nel quale moriremo: è l’origine, ma anche il destino.
Ribellarsi - oggi - significa legarsi a questa Terra, tutelarne l’identità e preservarne le tradizioni. Difendere la Patria - oggi - significa combattere il mondo globale dove tutto si ripete, dove tutto si compra, dove imperano il multiculturalismo e la mescolanza.
Combattere, perché non si ha altra scelta: difendendo la nostra Patria dall’invasione migratoria che alimenta il business dell’accoglienza, che ci espone ai rischi del terrorismo, che genera le tensioni etniche; restituendo una dignità alla nostra Nazione, umiliata dalla crisi economica e saccheggiata dagli usurai della finanza internazionale; riconquistando la nostra sovranità, usurpata dai governi tecnici e dai burocrati di Bruxelles. Combattere per ritrovare noi stessi, cominciando dalla scuola: studiando la nostra storia, valorizzando la nostra lingua, coltivando la nostra cultura.
Perché vogliamo una “scuola dell’identità” e non una “scuola-azienda”: un’istituzione che ci educhi all’appartenenza e non alla sottomissione, che ci insegni ad amare l’Italia e non a scappare all’estero, che parli anche di Patria e non solo di Erasmus. Non la scuola dei mercati, ma quella delle radici: che preferisce l’italiano all’inglese, gli artigiani locali alle multinazionali, le persone agli automi, il tricolore alle bandiere arcobaleno. Tutto per la Patria: perché abbiamo scelto di essere e non di avere, di fare e non di parlare, di lottare e non di sottometterci.
VOGLIAMO OSARE, SENZA TREGUA, IL NOSTRO ASSALTO AL CIELO!

lunedì 5 luglio 2010

Sciogliere il Parlamento

di Marcello De Angelis
Ovviamente ci attendono tempi grami. Bisognerà stringere la cinghia, crescerà la disoccupazione, molte imprese non ce la faranno, aumenterà il costo della vita. La cosa si può affrontare in maniera responsabile o irresponsabile. Per ora, almeno nei media, prevale la seconda. L’annuncio di una nuova austerity ha dato la stura all’ennesima, noiosa, cialtrona campagna anti-parlamentare. Chi sia l’imbecille di genio che ha creato l’immagine retorica della “casta” non saprei, ma un giorno andrà ricordato.
La suggestione che gli unici denari pubblici sprecati siano quelli degli stipendi dei parlamentari, oltre che sciocca, è pericolosa. Purtroppo ormai è dilagata come una malattia venerea e, semmai ce ne fosse bisogno, la “casta” parlamentare ha dato ulteriore prova della propria insignificanza non potendo far nulla per arginarla. Eppure alcune fievoli voci si sono alzate, se non altro per dire alla folla istupidita: “Ehi! Guardate che vi stanno agitando di fronte un drappo rosso perché non vi voltiate a vedere dove sono le caste vere!”. Ma mettersi sulla strada del toro impazzito non è cosa saggia. A nulla è valsa la vicenda Santoro, che sarebbe stata sufficiente per far vedere la luce anche a un idiota cieco.
Come se il denaro della Rai non fosse denaro pubblico come quello degli stipendi dei parlamentari. E nessuno commenta le minacce dei magistrati, che stanno sui giornali ormai ogni giorno per avvertire la politica che i suoi privilegi non si toccano. L’Anm è ormai l’unico “sindacato rivoluzionario” ancora esistente al mondo. Si può tagliare l’occupazione, i fondi alla cultura e persino quelli per la difesa, ma guai a toccare gli stipendi dei magistrati o le paghe fantastiche dell’aristocrazia del giornalismo. E se per giustificare che un top manager percepisca al mese il doppio di quello che un impiegato prende in un anno ci si attacca al solito, vacuo “ma sono soldi privati”, per giustificare gli intoccabili privilegi delle altre caste si scomodano addirittura la libertà di stampa e la difesa della legalità.
La libertà di stampa, infatti, non è garantita dalla serietà dei giornalisti, ma dal fatto che alcuni di loro possano percepire centomila euro per una trasmissione di un’ora e la legalità non viene difesa con l’impiego di maggiori mezzi o con una maggiore certezza del diritto, processi più veloci o procedure più semplici, ma dagli stipendi d’oro dei magistrati. A nessuno passa per la mente di dire che eliminando i parlamentari si elimini la democrazia parlamentare, ovviamente. Forse perché - ed è sempre più probabile - della democrazia in generale e di quella parlamentare in particolare, non gliene frega più a nessuno.
Eliminiamolo pure il Parlamento, tanto non conta nulla. I parlamentari ne sono testimoni. Non servirà certo a sanare i conti del Paese, ma almeno impedirà alle caste vere di avere uno specchietto per le allodole per distrarre gli sprovveduti. Tanto il potere legislativo ormai è passato in altre mani: quelle della Commissione europea e delle Regioni, con buona pace della sovranità nazionale. E non serve certo andarsi a rivedere il film di Orson Welles per sapere che esiste un Quarto Potere che può distruggere e ricostruire qualsiasi uomo politico, partito o esecutivo. Del potere giudiziario, come già detto, è meglio tacere.
Non male l’idea di una società dove comandano i giudici, i giornalisti e gli attori e dove la classe politica è ridotta solo all’amministrazione pubblica, ricattata e blandita di volta in volta dalla magistratura e dalla stampa, e con una massa di cittadini distratta dal circo e nutrita a gossip. In fin dei conti anche i cittadini dalla politica vogliono solo la raccomandazione, il favore, il finanziamento pubblico, l’appaltino, non già garanzie per l’interesse collettivo... Chi crede che i costi eccessivi della politica siano gli stipendi dei parlamentari è uno sprovveduto, ma chi lo sostiene è un ipocrita. Chiunque abbia avuto a che fare con il mondo della politica (che purtroppo ormai non è più idee, progettualità, valori o foss’anche odii ideologici) sa che il modo in cui questa grava sulla salute economica della Nazione è attraverso il malaffare diffuso apparentmente inestirpabile e dal quale non sembra immune nessuna parte politica.
E non ci sono inchieste, processi o leggi che possano sradicare la percezione diffusa - e oggi ancor più presente tra i giovani che si affacciano alla politica - che l’unico senso dell’impegno sia assicurarsi il modo di poter gestire le risorse pubbliche e che sia un modo di arricchirsi molto meno faticoso. è questa immagine che siamo chiamati a demolire. Il rimpallo di responsabilità non funziona. L’unico strumento è l’esempio. Nella consapevolezza - ahimé - che molti in Italia pensano ancora che “onesto” sia sinonimo di “fesso”.

martedì 22 giugno 2010

Vince sempre chi più crede...

Roma, 22 giu. - (Adnkronos) - ''La scelta delle Foibe come tema di maturita' ci riempie il cuore di orgoglio. Finalmente in Italia il dramma del confine orientale, dove oltre 20.000 italiani hanno perso la vita sta diventando un patrimonio comune per la nostra terra''. Lo dichiarano in una nota congiunta il Presidente della Giovane Italia di Roma Cesare Giardina e Andrea Moi responsabile romano di Azione Studentesca.
''Se e' vero che gia' esiste una legge nazionale che istituisce 'La giornata del ricordo' per il 10 febbraio - sottolineano Giardina e Moi - e' altrettanto vero che le grandi vittorie culturali si conquistano nella quotidianita', proprio come in questo caso, per questo ci complimentiamo con il ministero dell'istruzione per il coraggio dimostrato nella scelta di questa traccia''.
''Un pensiero - aggiungono - vola anche a tutti quei professori ancora ideologizzati, reduci del 68 e militanti di sinistra vari, che anche quest'anno in occasione del 10 febbraio hanno provato in tutti modi ad oscurare la tragica vicenda delle foibe, tentando di riscrivere la storia con un mezzo a loro molto caro: la censura. Siamo sicuri - concludono - che questa volta la colazione gli e' andata proprio di traverso''.